10/12/2015

I paesi emergenti: riflessioni di fine anno di un investitore value

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Parlare oggi di investimenti azionari in paesi emergenti è un tema molto spinoso. Una combinazione di fattori globali e problematiche specifiche hanno reso questa asset class decisamente poco amata dagli investitori internazionali. Da inizio anno, decine di miliardi di dollari sono stati rimborsati dai fondi azionari emergenti, mentre alcune stime indicano in circa 1 trilione di dollari l’ammontare totale dei deflussi di capitali da questi paesi in poco più di 13 mesi. Non deve quindi sorprendere come le performance degli indici azionari emergenti non siano state particolarmente soddisfacenti.

Al 9 dicembre solo la Russia (+10,3%) e la Corea del Sud (+4,6%) offrono rendimenti in euro positivi, mentre il resto dei paesi emergenti, con in testa il Brasile (-28,8%) e la Turchia (-22,5%), sono in territorio negativo con l’indice generale emerging markets in euro in rosso del 8% circa.

Le motivazioni dietro questa débâcle sono note. I mercati emergenti si trovano oggi a vivere in un periodo storico particolarmente travagliato; dopo anni di espansione del PIL, trainata in particolar modo dalle esportazioni di materie prime, il declino del prezzo delle stesse, causato anche dal rallentamento del colosso cinese, ha influito negativamente sulla loro crescita. Molti paesi non sono infatti riusciti a sfruttare pienamente il periodo favorevole per riequilibrare la loro struttura economica e aumentare la produttività rimanendo direttamente o indirettamente legati all’andamento del prezzo delle commodities. La discesa dei prezzi delle materie prime ha infatti coinvolto non solo le esportazioni (e di conseguenza la bilancia commerciale e quella dei pagamenti) ma ha dispiegato i suoi effetti anche sugli investimenti privati, i consumi e le risorse a disposizione dei governi i cui budget dipendono, in alcuni casi in buona misura, dall’andamento del prezzo delle materie prime.

La svalutazione dello yuan cinese ha inoltre contribuito a creare disequilibri valutari globali importanti anche in considerazione della liquidità attualmente presente nel sistema. Il precedente quinquennio è stato infatti contraddistinto dai QE delle banche centrali occidentali che hanno inondato di liquidità i mercati finanziari globali, circostanza che ha notevolmente appesantito la situazione debitoria di alcuni paesi emergenti e in particolar modo nel settore privato. Molte aziende (come ad esempio in Turchia) hanno approfittato della facile reperibilità e del basso costo dei finanziamenti per indebitarsi in hard currency. L’avvicinarsi del ciclo dei rialzi dei tassi della Federal Reserve, unito al rallentamento macroeconomico in atto e alle rinnovate incertezze geo-politiche in alcune realtà, hanno però causato una generale fuga degli investitori con un conseguente deprezzamento di molte valute emergenti, in special modo verso il dollaro americano. Il risultato è che oggi molte società si trovano a dover ripagare un valore del debito in valuta locale notevolmente più alto rispetto al passato.

In estrema sintesi quindi, il quadro generale non è dei migliori. Nel prosieguo di questo articolo non ci occuperemo tuttavia della Cina o dell’India ma cercheremo di fare una rapida carrellata sugli altri principali paesi emergenti, per cercare di capire se, allo stato attuale, esistano interessanti opportunità di investimento in un’ottica di investimento contrarian value di medio lungo periodo.

Generalmente, le valutazioni non ci sembrano particolarmente invitanti; a eccezione della Cina e della Russia, quasi tutti gli indici trattano infatti a circa 15 volte gli utili per l’anno fiscale corrente, con punte di 18,6 volte del mercato indiano e di quello filippino e di 21 volte per quello messicano. I multipli sono alti per la semplice ragione che la correzione degli indici azionari da inizio anno, nonostante il diffuso rallentamento della crescita, è stata disomogenea e in certi casi molto limitata. L’indice che ha perso di più infatti è quello indonesiano (-14,5%) mentre, rimanendo in Asia, la Corea del Sud guadagna l’1,7%, l’India perde appena il 5% mentre Shanghai guadagna quasi il 10%. Il mercato si è infatti accanito maggiormente sulle valute e in particolare su quelle di quei paesi con twin deficit (partite correnti e bilancio fiscale) come Turchia, Sud Africa e soprattutto Brasile. Quest’ultimo si trova in una situazione particolarmente difficile, paradossalmente opposta rispetto ai problemi cinesi. Mentre Pechino è eccessivamente dipendente dalla crescita degli investimenti, con una quota dei consumi in crescita ma non ancora sufficiente a supplire a un rallentamento del F.A.I. (Fixed Asset Investment), in Brasile negli ultimi anni è avvenuto l’esatto contrario: eccessivi consumi (alimentati da politiche di espansione del credito, in special modo attraverso banche a controllo statale che hanno elevato il livello di indebitamento delle famiglie), pochi investimenti, crescenti deficit pubblici ,bassa produttività e alto livello di inflazione ben oltre il target della banca centrale, che è stata costretta, nonostante il rallentamento economico, ad alzare i tassi d’interesse oggi tra i più alti al mondo in termini reali.

Il risultato è che il paese è oggi in recessione e nel pieno di una tempesta politica anche a seguito dei vari scandali che hanno coinvolto l’attuale classe dirigenziale. A nostro avviso esistono interessanti opportunità nel paese e il pessimismo che serpeggia tra gli investitori è forse eccessivo e ben al di là di quanto giustificato dai fondamentali economici di lungo periodo.

A beneficiare della sfiducia degli investitori verso il Brasile è stato il Messico, dove molti fondi hanno cercato rifugio guidando, a nostro avviso eccessivamente, al rialzo le valutazioni azionarie. Anche in Sud Africa la situazione non è rosea sebbene meno drammatica di quella brasiliana. La crescita tuttavia è notevolmente diminuita e le valutazioni del mercato azionario non ci sembrano riflettano appieno il rallentamento in atto.

Nel caso della Russia gli scenari catastrofisti paventati da molti non si sono verificati. Il paese è sì in recessione ma quest’ultima è meno pronunciata delle attese. Il rimbalzo del prezzo del petrolio ha aiutato a stabilizzare il rublo mentre la banca centrale ha cominciato un allentamento della politica monetaria. Il grosso del rallentamento è ricaduto sulle spalle dei consumatori, soprattutto in termini di una notevole riduzione del potere di acquisto dei salari. Continuiamo a privilegiare le aziende esportatrici ma abbiamo ridotto l’esposizione al paese approfittando del rialzo dei corsi azionari e del rublo.

Passando all’ Asia (ed esclusione di Cina e India) la Sud Corea è stato uno dei paesi più difensivi della regione, con la domanda interna che è riuscita, al momento, a contenere la decelerazione delle esportazioni ed è uno dei paesi su cui siamo maggiormente investiti. Tra i suoi settori privilegiamo il comparto finanziario, quello delle telecomunicazioni e quello dei consumer discretionary, più qualche singola storia nel settore industriale.

Nel resto del Sud-est asiatico siamo più prudenti; Malesia, Indonesia e Tailandia sono accumunate da valutazioni non particolarmente attraenti, da incertezze politiche (il pm malese, Najib Razak, è accusato di corruzione, quello indonesiano, Joko Widodo, è alle prese con una impasse politica mentre in Tailandia la giunta militare al potere sembra più preoccupata di gestire il periodo di transizione che di rilanciare l’economia), da un deterioramento dei fondamentali e da mini stimoli fiscali che mancano di concretezza.

A Taiwan, la cui economia è molto legata alle esportazioni e al settore dei semiconduttori (e quindi più dipendente dall’andamento dell’economia globale), si attendono le elezioni di gennaio 2017 (molto importanti essendo sia presidenziali che amministrative) dove si deciderà la guida politica del paese nei prossimi anni e quindi l’avvicinamento o meno alla Cina.