16/09/2015

Un po’ di chiarezza su quello che succede in Cina

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La correzione della Borsa cinese e i timori circa il rallentamento della crescita del paese sono sotto gli occhi di tutti. Sicuramente il movimento dei prezzi azionari in Cina è stato rilevante, con il listino di Shanghai che ha perso il 39% dai massimi di giugno. A creare questa netta percezione del pubblico ha però contribuito in maniera rilevante l’attenzione che i media hanno dedicato alla cosa. Quello che è però meno chiaro ai più, è qualcosa che non si coglie nel clamore dei titoli dei notiziari. Proviamo quindi a fare un po’ di ordine su cosa sta accadendo in Cina, non in queste settimane ma in questi mesi se non anni.

La sfida che la Cina sta affrontando è quella di passare dall’essere un’economia basata sugli investimenti ad una trainata dai consumi. Tale cambiamento è epocale e richiederà diversi anni prima di mostrare qualche risultato rilevante. Per dare un’idea della situazione, nel 2014 il 40% del Pil era originato ancora dalla spesa per investimenti mentre la componente dei consumi delle famiglie rappresentava solo il 37% dell’economia. Negli Stati Uniti, in termine di paragone, la spesa delle famiglie rappresenta circa il 68,5% mentre gli investimenti rappresentano appena il 19%. Il gigante cinese ha trascorso i decenni passati accumulando capitale ed è abbastanza evidente che guardando al futuro questa strada non sia più percorribile. La ricetta della crescita nel lungo periodo prevede infatti sia l’incremento dei fattori della produzione (capitale e lavoro) sia un miglioramento della produttività anche e soprattutto attraverso l’innovazione tecnologica. Il governo cinese si trova quindi a gestire un cambiamento del tessuto economico e sociale del paese che potrà realizzarsi solo nel medio lungo periodo e che sarebbe ingenuo aspettarsi in pochi mesi. Il ribilanciamento del modello di crescita ha chiaramente ripercussioni nell’andamento dell’economia nel breve. I dati ufficiali parlano di una crescita del 7% nel secondo trimestre ma è ormai prassi dubitare dei dati rilasciati dagli organi ufficiali di Pechino. I dati non ufficiali parlano di una crescita parecchio inferiore, che i pessimisti stimano anche del 4%, e i segnali di un rallentamento più forte dei dati ufficiali si trovano un po’ dappertutto.

L’attuale ondata di vendite sui mercati cinesi è stata innescata da una svalutazione dello yuan e da dati ufficiali sulla crescita economica inferiori alle attese. Ora, bisogna probabilmente prendere atto del fatto che la Cina non continuerà in futuro a crescere ai tassi a cui ci ha abituato negli scorsi anni. Ciononostante, rimane una delle grandi economie del mondo con il Pil che, malgrado il rallentamento, cresce più velocemente. Con una base economica di 10,3 trilioni di dollari nel 2014, un aumento del Pil anche solo del 5% significa che nel 2015 la Cina “creerà” valore aggiunto equivalente all’intera economia polacca. L’aumento dei consumi e dei salari, così come l’andamento del settore dei servizi, saranno elementi chiave di un ribilanciamento del modello economico, probabilmente verso un futuro più sostenibile. I primi segnali in questa direzione sono positivi: nella prima metà del 2015, il 60% della crescita cinese è attribuibile alla crescita dei consumi, con il settore dei servizi cresciuto del 8,3% in rialzo rispetto al 8% del primo trimestre e al 7,8% del quarto trimestre del 2014. Molto deve essere ancora fatto ma i segnali sono incoraggianti.

Non bisogna poi dimenticare che per far fronte al rallentamento della crescita, il governo dispone di diverse leve fiscali e monetarie. Il fatto che i tassi in Cina siano elevati (tassi di prestito al 4,6%) lascia parecchio spazio di manovra per una politica monetaria espansiva volta a stimolare l’economia. Un altro degli strumenti a disposizione, di cui si sta parlando, sarebbe quello di ridurre le riserve obbligatorie per gli istituti di credito, aumentando in questo modo l’offerta di moneta presente nell’economia. Politiche di questo genere potrebbero sostenere la crescita nel caso in cui il governo lo ritenesse necessario e non sono affatto escluse manovre di quantitative easing sulla falsa riga di quanto già fatto dalle banche centrali occidentali. Il governo cinese, nonostante l’economia sia complessivamente abbastanza levereggiata, dispone poi di un ampio margine di manovra sul fronte fiscale; il debito pubblico sul Pil è sotto il 50%; l’aumento del debito del paese negli ultimi anni è stato infatti dovuto all’accelerazione del debito privato (famiglie e imprese) che dovrebbero comunque avvantaggiarsi di eventuali manovre di easing della banca centrale.

Per interpretare la volatilità di queste settimane bisogna poi fare una considerazione: la borsa di Shanghai non è rappresentativa dell’economia cinese. L’evidenza storica suggerisce infatti che l’andamento dell’indice è decorrelato dai dati provenienti dall’economia reale. Inoltre, la quota di cittadini cinesi che investono in Borsa è contenuta tanto da rendere marginale l’eventuale effetto ricchezza (o povertà) indotto dall’apprezzamento (o deprezzamento) dei titoli. A ben vedere infatti, l’ascesa e il successivo crollo dei listini dai massimi di aprile sono stati in larga misura guidati da una espansione e dal rientro dei margini, più che da un miglioramento e un peggioramento dei fondamentali. Ben più importante ai fini della ricchezza delle famiglie è il mercato immobiliare, che sta dando importanti segnali di stabilizzazione soprattutto nelle città più grandi.

Come dicevamo sopra, uno dei fattori trainanti della volatilità di queste ultime settimane è stata la svalutazione dello yuan. Tale movimento, nell’ordine del 3% nei confronti del dollaro, è da ritenersi però marginale rispetto alla dinamica delle due divise su di un orizzonte più lungo. La valuta cinese è infatti reduce da un apprezzamento nei confronti del dollaro di oltre 25 punti percentuali dai valori di dieci anni fa. La recente svalutazione ha tuttavia innescato un’uscita di capitali domestici, fisiologica sui timori di un’ulteriore svalutazione. Non è stata però intaccata la presenza di capitali esteri, con gli investimenti diretti esteri che si mantengono elevati e con una crescita del 20% a/a. Le autorità cinesi detengono diverse migliaia di miliardi di valuta estera che permettono di controbilanciare una svalutazione, nel caso questa assumesse dimensioni sgradite. Sul fronte dei flussi internazionali, rimane inoltre da osservare che la Cina ha sia la bilancia delle partite correnti sia quella commerciale in attivo, a indicare una forza delle esportazioni e uno status di creditore rispetto al resto del mondo.

A livello di riforme economiche, vi sono diverse proposte in via di implementazione che dovrebbero avere un impatto di medio periodo positivo, come già approfondito in un recente articolo. In particolare, guardiamo con favore alla riforma delle State Owned Enterprises, misura volta ad aumentare la partecipazione del privato in alcuni settori chiave dell’economia e a renderla più efficiente, così come alle misure anti corruzione, che rischiano di avere un impatto negativo sulla crescita del PIL nel breve periodo, favorendo però una migliore allocazione delle risorse e quindi la produttività nel medio termine.

In termini di valutazioni, il mercato di Hong Kong (su cui investiamo) tratta a valutazioni estremamente vantaggiose sia in termini assoluti che in termini relativi. Alla luce di queste considerazioni, abbiamo scelto di non ridurre la nostra esposizione alla Cina approfittando invece dei ribassi per incrementare la posizione, che rappresenta oggi circa il 30% degli attivi sul fondo AcomeA Paesi Emergenti.